14 luglio 2025

Umiliata ma non sconfitta: la Repubblica Islamica dell’Iran dopo la guerra con Israele

di Riccardo Redaelli

 

Direttore del Master in Middle Eastern Studies (MIMES)

ASERI NEWSLETTER Box landing page 992 x 560 - Redaelli landing page

È certo ed evidente che la Repubblica Islamica dell’Iran sia stata significativamente indebolita dai colpi inferti da Israele dopo il 7 ottobre 2023. La sua rete di proxy è stata smantellata o gravemente compromessa; il regime decennale del suo principale alleato siriano è crollato; i Pasdaran (IRGC) e i suoi apparati di sicurezza sono stati umiliati dai bombardamenti israeliani e da omicidi mirati di alto profilo; e, infine, i siti collegati al suo ambiguo programma nucleare sembrano aver subito danni consistenti.

 

Dopo la disastrosa invasione anglo-americana dell’Iraq del 2003, Teheran aveva costruito una sorta di “deterrenza asimmetrica” contro Israele, composta precisamente da milizie e movimenti alleati nella regione (che avrebbero dovuto accerchiare lo Stato ebraico in un “anello di fuoco”), ulteriormente rafforzata dal programma missilistico della Repubblica, capace di garantire capacità offensive nonostante le debolezze delle forze armate nazionali. Grazie anche all’abilità e al carisma personale del generale Qassem Soleimani – martire per eccellenza dei Pasdaran dopo il suo assassinio da parte degli americani nel 2020 – l’Iran aveva raggiunto una sorta di predominio geopolitico nella regione. Un’immagine di forza che spaventava i Paesi vicini, in primo luogo le monarchie arabe del Golfo, e che trasmetteva un senso di sicurezza che si è rivelato illusorio.

 

La superpotenza militare di Israele ha infatti infranto tutto questo. Fino al punto che il governo israeliano di estrema destra, illuso dai colpi spettacolari inferti, ha accarezzato l’idea di provocare un regime change, un sogno antico e mai del tutto segreto sia a Tel Aviv che a Washington. Per qualche giorno di giugno, chi conosceva poco la realtà iraniana si è chiesto se la Repubblica Islamica fosse sul punto di crollare. Illusione, appunto, poiché il regime di Teheran, pur odiato dalla maggior parte della sua popolazione, è profondamente radicato nel Paese. L’Iran non è la Siria, né la Libia o l’Iraq, e il Nezam (il sistema di potere nato dalla rivoluzione del 1979) ha una solidità ben maggiore rispetto al regime di Assad a Damasco, crollato come un castello di carte non appena è venuto meno il sostegno di Russia, Hezbollah e Iran.

 

Sebbene la leadership attuale sia in gran parte impopolare, non sono emersi finora movimenti politici davvero organizzati in grado di sfidarla. Né vi sono leader carismatici attorno ai quali raccogliere un progetto alternativo all’attuale sistema di potere. In effetti, le principali forme di “opposizione” sviluppatesi in Iran sono state interne allo stesso sistema, come il movimento riformista, che ha cercato una radicale liberalizzazione senza chiederne lo smantellamento. Allo stesso modo, i tentativi di fomentare minoranze etniche e religiose – dai Baluci nel sud-est, ai Curdi, alla minoranza araba nel sud-ovest – per destabilizzare il sistema di potere di Teheran appaiono del tutto sterili.

 

Neppure all’estero si sono affermati movimenti o leadership realmente carismatici: il figlio dell’ultimo Scià, Reza Cyrus Pahlavi, che pure ha agitato le acque durante i 12 giorni di guerra, non gode chiaramente di alcun sostegno reale nel Paese. Tra i movimenti di opposizione, il più noto resta quello dei Mujaheddin-e Khalq, considerato da molti un gruppo terroristico, e fermo a un’ideologia islamico-socialista che appare ormai superata dalla storia.

 

Il Nezam è molto più radicato e solido di quanto spesso si creda in Occidente: può contare su un blocco sociale costituito dalle classi più svantaggiate, che beneficiano del clientelismo del regime, nonché su una nuova borghesia a esso legata, dove denaro e affari si intrecciano con la gestione del potere e degli strumenti repressivi. I Pasdaran non sono forze armate coscritte con la forza, come in molti eserciti delle dittature mediorientali: essi traggono beneficio da questo sistema politico e sono quindi disposti a difenderlo, anche a costo di sparare sul proprio popolo. Persino gli omicidi spettacolari dei loro comandanti, nel medio periodo, rischiano paradossalmente di rafforzarli, poiché aprono la strada a una nuova generazione di ufficiali che da tempo criticava la corruzione dei superiori, troppo intenti a rubare denaro e gestire il potere, e troppo poco preoccupati delle questioni strettamente militari.

 

Come sempre, Israele crede che la sua iper-potenza militare non sia soltanto uno strumento, ma anche la soluzione a ogni problema politico. È un’illusione pericolosa: con l’Iran non esistono alternative a un serio impegno politico.