19 settembre 2025

Cosa può ancora insegnarci la caduta degli imperi

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Nel trentesimo anniversario di ASERI, è opportuno tornare su una delle domande centrali che ho posto lungo tutta la mia attività di docente: perché le grandi potenze sorgono – e perché, infine, cadono?

 

È una domanda che attraversa i secoli, dal crollo di Roma al declino dell’Impero britannico. Ma è stato Paul Kennedy, nel suo classico del 1987 The Rise and Fall of the Great Powers, a offrire una delle analisi più convincenti e accessibili di questo schema storico ricorrente. La sua tesi centrale – che gli imperi spesso crollano non per debolezza, ma per “sovraestensione imperiale” – trovò un’eco profonda in un’epoca in cui la supremazia globale americana non appariva più scontata.

 

Kennedy scrisse il libro due anni prima della fine della Guerra Fredda, in un momento in cui gli Stati Uniti iniziavano a confrontarsi con domande che non si ponevano seriamente dagli anni Quaranta: può una superpotenza declinare? E, se sì, in che modo? Il suo studio, fondato su cinque secoli di storia mondiale, avvertiva che nessuna potenza, per quanto eccezionale si consideri, può sfuggire alle pressioni economiche e strategiche che, prima o poi, investono ogni impero.

 

Negli anni successivi, la tesi di Kennedy conobbe fortune alterne. Gli anni Novanta, a prima vista, sembravano smentirla: gli Stati Uniti apparivano incontrastati al vertice del potere internazionale, vittoriosi e dominanti. La globalizzazione avanzava rapidamente, l’Unione Sovietica si era dissolta, e la leadership tecnologica e culturale americana raggiungeva livelli inediti. L’idea di un “momento unipolare” si affermò nel dibattito accademico e politico. Eppure, come la storia ricorda, il suo corso non è mai lineare.

 

Con gli anni Duemila, la narrazione cambiò. Le guerre interminabili in Medio Oriente, la crisi finanziaria del 2008, le disuguaglianze crescenti e il contraccolpo globale contro il liberalismo concorsero a minare il consenso del dopoguerra fredda. Al contempo, la Cina accelerava la sua ascesa, la Russia riaffermava la propria presenza, e una nuova generazione di leader del Sud globale iniziava a mettere in discussione le regole di un sistema che non aveva contribuito a scrivere.

 

Anche all’interno degli Stati Uniti, la polarizzazione si aggravava, la fiducia nelle istituzioni si erodeva, e quella vecchia sensazione di inevitabilità storica – la convinzione che democrazia liberale e libero mercato avrebbero trionfato – cominciava a svanire. Se l’ordine internazionale liberale era mai stato un progetto coerente, ora appariva meno come il punto d’arrivo della storia e più come una sua fase.

 

Kennedy non pretese mai di predire il crollo. Ciò che offrì fu piuttosto un quadro interpretativo – un modo per guardare il mondo attraverso la lunga prospettiva della storia. Ricordò che il potere non è statico: è relazionale, contingente, e spesso soggetto a forze che nessun governo può controllare. L’equilibrio tra capacità economica e ambizione strategica è fragile, e quando si spezza, le conseguenze seguono inevitabili.

 

Questa intuizione è oggi attuale quanto nel 1987 – forse ancora di più. Viviamo in un mondo segnato da nuove incertezze: intelligenza artificiale e cambiamenti climatici, alleanze che mutano, transizioni demografiche e profonde contese ideologiche. La domanda non è più soltanto se gli Stati Uniti resteranno dominanti, ma se uno Stato solo possa ancora sostenere un sistema globale stabile.

 

All’ASERI, da trent’anni, gli studenti si confrontano con queste stesse domande. Studiano gli imperi e le loro eredità, la logica mutevole dell’ordine mondiale, la fragilità delle istituzioni e l’intreccio profondo tra idee e interessi. Imparano a leggere la storia non come una sequenza di eventi, ma come una serie di dilemmi ricorrenti – sempre diversi nel contesto, ma riconoscibili nella struttura.

 

Questo, in fondo, è ciò che il libro di Kennedy continua a insegnarci: non che il declino sia inevitabile o che l’America sia finita, ma che la storia resta aperta – e che comprendere le forze che la muovono è il primo passo per saperla affrontare.

 

In questo senso, ASERI non è mai stata soltanto una scuola: è, e deve continuare a essere, un luogo di riflessione sul potere, sul cambiamento e sulla sfida permanente di interpretare un mondo in movimento.