11 novembre 2025

La normalizzazione dell’espansione di Israele

di Marina Calculli

 

Assistant Professor di Relazioni internazionali all’Università di Leiden

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«Nessuno si accorgerà di voi, nessuno chiederà di voi. Siete lasciati soli a fronteggiare il vostro inevitabile destino». Queste parole erano stampate su un volantino che le forze di occupazione israeliane hanno lanciato su Gaza il 20 marzo 2025, all’apice della loro guerra genocidaria contro il popolo palestinese. Qualche riga più sotto, si legge ancora: «Né gli Stati Uniti né l’Europa si preoccupano di Gaza. Neppure i vostri Stati arabi se ne preoccupano. Sono nostri alleati ora, ci forniscono denaro, armi e petrolio. Vi mandano solo sudari». Questo messaggio non soltanto esalta l’impunità totale del genocidio di Israele contro il popolo palestinese, ma rivela l’infrastruttura politica che lo sostiene: la cosiddetta “normalizzazione” – l’instaurazione, orchestrata dagli Stati Uniti, di legami formali tra gli Stati arabi e Israele.

 

In un articolo recente intitolato "The banality of normalization. The desecuritization of Israel’s aggrandizement in the Middle East" ovvero "La banalità della normalizzazione. La desecuritizzazione dell’espansione israeliana in Medio Oriente",  pubblicato su The International Spectator, ho messo in discussione la normalità con cui la “normalizzazione” viene comunemente discussa e persino celebrata. Per esempio, la Commissione Europea ha stanziato 18 milioni di euro per sostenere i cosiddetti “Accordi di Abramo”, lo schema guidato dagli Stati Uniti per indurre gli Stati arabi a riconoscere Israele. Ciò è avvenuto proprio mentre Israele stava commettendo un genocidio contro il popolo palestinese, oltre ad occupare e bombardare diversi paesi arabi, tra cui la Siria e successivamente il Qatar – senza che questi ponessero alcuna minaccia per Israele. È difficile sopravvalutare la portata della dissonanza europea. I massimi funzionari dell’UE ritengono aberrante tenere colloqui di pace tra Russia e Ucraina mentre la Russia continua a commettere crimini di guerra contro la popolazione civile ucraina. Perché allora trovano normale, e persino desiderabile, che gli Stati arabi stringano legami con uno Stato genocidario ed espansionista? In altre parole, come è diventata “normale” l’espansione territoriale israeliana in Medio Oriente?

 

Per rispondere a queste domande, bisogna guardare alla logica interna dell’ordine imperiale statunitense. Israele ne occupa il centro, come Stato guarnigione e laboratorio di tecnologia militare e di sorveglianza – attraverso cui gli Stati Uniti perseguono la loro strategia di incorporazione totale del Medio Oriente nella propria sfera d’influenza. Questa non è una novità. La storia della regione è disseminata di accordi di “pace” che hanno funzionato come strumenti di neutralizzazione ideologica e di sottomissione economica: l’accordo di Camp David del 1978 tra Israele ed Egitto; gli accordi di Oslo negli anni ’90; il trattato di pace del 1994 tra Giordania e Israele. I cosiddetti “Accordi di Abramo” – una serie di accordi bilaterali organizzati dagli Stati Uniti a partire dal 2020 – si appoggiano all’eredità di questi accordi. Il linguaggio del transazionalismo, della finanza e dell’innovazione – spesso abbellito da significanti vuoti come “prosperità” e “pace” – ha progressivamente sostituito e rimpiazzato il linguaggio della politica e del diritto internazionale.

 

Dietro la coreografia diplomatica si cela il progetto di trasformare il Medio Oriente in una zona imperiale sotto esclusivo controllo statunitense-israeliano. Gli Stati Uniti hanno concesso a Israele carte blanche per usare la forza al fine di trasformare gli Stati vicini in facilitatori pacificati degli affari statunitensi e israeliani, o in entità senza nome e senza vera sovranità. Questo è un piano esplicito. Quando funzionari americani o israeliani, come Jared Kushner, Tom Barrack, Mike Huckabee o Benjamin Netanyahu parlano di un “Nuovo Medio Oriente”, si riferiscono a una zona economica trainata dalla cybersicurezza, dall’intelligenza artificiale e dall’estrazione di petrolio e gas, dove l’esistenza, le aspirazioni, per non dire la sovranità, dei popoli indigeni non sono contemplate. Quello che chiamano “cooperazione regionale” è una fantasia di futurismo capitalista post-politico, costruita sulle macerie della Palestina e degli Stati arabi. Questo è ciò che viene chiamato “normalizzazione” – non un progetto di pace ma la routinizzazione del genocidio, dell’apartheid e della guerra perpetua contro qualsiasi forma di resistenza. La banalità della normalizzazione risiede nella leggerezza con cui viene presentata dagli Stati Uniti e accolta da leader arabi compiacenti e alla ricerca di profitto a breve termine, oltre che da altri governi occidentali – in particolare europei – desiderosi di preservare la loro dipendenza dagli Stati Uniti. Non ci sono dichiarazioni formali di conquista territoriale, ma piuttosto memorandum d’intesa, nei quali dominazione, occupazione e annessione vengono riconfezionate come una questione amministrativa, anche quando ciò comporta lo spostamento forzato e lo sterminio di interi popoli.