18 marzo 2025

Trent’anni nel mondo di domani

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Alla fine di Guerra e Pace, dopo aver condotto il lettore attraverso centinaia di pagine, Lev Tolstoj si domandava: «Qual è la forza che muove le nazioni?». In fondo, questa è la stessa domanda che gli studiosi si sono posti nei loro tentativi di spiegare i fenomeni sociali. Quali forze spingono gli Stati a prendere decisioni? Cosa induce i cittadini a obbedire o disobbedire a chi detiene il potere? E cosa alimenta le continue oscillazioni dei mercati?

 

Negli ultimi due secoli, innumerevoli teorie hanno cercato di rispondere a questi interrogativi – alcune ponendo l’accento sul livello micro e sulle interazioni tra individui, altre focalizzandosi sul livello macro, dove operano Stati, organizzazioni e imprese. Tutte queste teorie hanno cercato, con diversa ambizione, di “afferrare” la forza evocata da Tolstoj e di individuare i nessi tra cause ed effetti. Eppure, anche le teorie più convincenti e i modelli più sofisticati non sono mai riusciti a eliminare il margine intrinseco di incertezza e imprevedibilità che accompagna l’agire umano e le relazioni internazionali. La storia non ha mai smesso di sorprenderci, di imboccare svolte inattese e di sfidare ogni forma di determinismo. E il mondo resta una fitta rete di interrelazioni che non può essere ridotta a modelli o spiegazioni semplicistiche.

 

Trent’anni fa, nel 1995, quando nacque Aseri (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali), il mondo era molto diverso da quello che vediamo oggi. Erano trascorsi pochi anni dalla fine della Guerra fredda e sembrava che il mondo fosse entrato in una fase storica del tutto nuova, distinta dall’“età degli estremi” che aveva caratterizzato gran parte del Novecento. La storia pareva davvero “finita” – non perché la sequenza degli eventi si fosse arrestata (come l’uso fukuyamiano della formula hegeliana è stato spesso banalmente liquidato nel dibattito pubblico), ma in un senso simile alla battaglia di Jena del 1806, quando l’esercito di Napoleone sconfisse le forze prussiane, sancendo il trionfo degli ideali della Rivoluzione francese sui valori dell’ancien régime.

 

Con la fine della Guerra fredda, la democrazia liberale aveva prevalso sulle grandi ideologie che ne avevano contrastato l’egemonia lungo il XX secolo. I principi e le istituzioni dell’ordine internazionale liberale, sviluppatisi dopo la Seconda guerra mondiale, avevano ora la possibilità di espandersi a livello globale, creando forse per la prima volta nella storia un mercato davvero “mondiale”. I flussi di beni, capitali, informazioni e persone formavano una rete intricata che raggiungeva quasi ogni angolo del pianeta, trasformando spesso le vite a una velocità sorprendente.

 

La nuova Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica nacque dall’intuizione lungimirante che il mondo stava attraversando una trasformazione profonda e che non sarebbe più stato lo stesso. Per comprendere questi cambiamenti – che presto vennero chiamati globalizzazione – erano necessari strumenti e approcci innovativi. Anno dopo anno, la sede di via San Vittore divenne un punto di riferimento per accademici, imprenditori, analisti e professionisti internazionali che, con le loro competenze, contribuirono a costruire una cassetta degli attrezzi per interpretare le dinamiche in evoluzione delle relazioni internazionali: le interazioni mutevoli tra Stati, la logica delle nuove guerre, il ruolo della società civile globale, il processo di integrazione europea e la complessità del rapporto tra “globale” e “locale”.

 

Trent’anni dopo, di quel mondo rimane ben poco. I principi e le istituzioni dell’ordine internazionale liberale sono sotto attacco su più fronti. La “vecchia guerra” (che in verità non era mai del tutto scomparsa) è tornata sul continente europeo, e il comportamento degli Stati segue sempre più i principi della classica realpolitik, rendendo la corsa agli armamenti un imperativo diffuso. Perfino le istituzioni democratiche, un tempo considerate inattaccabili, appaiono oggi sempre più fragili, persino nelle aree del mondo che si ritenevano più stabili.

 

Dal 2025, l’ottimismo del 1995 può apparire eccessivo – persino ingenuo. Ma questa percezione è in parte inevitabile, perché ogni generazione tende a giudicare la precedente più ingenua. In effetti, l’ottimismo fu un tratto caratteristico degli anni Novanta e l’euforia del “nuovo mondo” era diffusa. Tuttavia, sarebbe ingeneroso liquidare quell’ottimismo come mera ingenuità. Possiamo prevedere il tempo con modelli matematici, ma non possiamo anticipare le decisioni di un leader politico o il crollo di un regime autoritario, perché osservare un fenomeno politico significa inevitabilmente alterarne la realtà e, di conseguenza, il comportamento degli attori coinvolti. Quando formuliamo previsioni sugli scenari futuri, influenziamo le percezioni di chi le ascolta. Se alcuni analisti in passato furono troppo ottimisti, un eccesso di pessimismo non avrebbe prodotto risultati migliori. In ultima analisi, le decisioni sono prese da persone, e vi è sempre un elemento di imprevedibilità nelle interazioni umane. Questa imprevedibilità può riservare spiacevoli sorprese, ma è anche il riflesso della libertà che ci definisce.

La domanda di Tolstoj resta senza risposta. E ancora a lungo continueremo a chiederci: «Qual è la forza che muove le nazioni?», senza mai trovare una risposta definitiva che sciolga ogni incertezza. Tuttavia, nei suoi trent’anni di esistenza, Aseri non ha mai preteso di offrire previsioni deterministiche. Piuttosto, ha cercato di formare professionisti, ricercatori e funzionari capaci di comprendere la complessità del presente. Perché per decidere è essenziale – se non decisivo – capire la logica degli attori con cui ci si confronta. E mentre il corso della storia mondiale resterà – fortunatamente – imprevedibile, continueremo a impegnarci per interpretarne le trasformazioni e per preparare i nostri studenti ad affrontarne le sfide. Soprattutto in un’epoca di incertezza, non smetteremo di immaginare il mondo di domani.